Scheda Libro

copertina Prima cosa, cos'è? Come chiamare questo insieme di frammenti, che pure costituiscono un unico filo, una continuità logica, parti ben strutturate, con precisi rimandi e simmetrie, di una totalità sia formale sia di contenuti, di un intero e necessario discorso? Ci sono degli a capo obbligati, una certa verticalità nella stesura, un forte senso del ritmo tipici della poesia, eppure manca una metrica fissa e riconoscibile, si presenta anche un allineamento orizzontale continuO, senza alcuna regola e cesura, come nelle prose, una scansione interna ad ogni brano, chiara, netta, con una rotondità che lo chiude in se stesso, ma il successivo appare riprendere il tema, portarlo avanti in una somma di situazioni, di cui ognuno rappresenta un episodio, un momento, un capitolo, come tante perle di un unica collana.
Quale minima definizione dare? Raccolta di poesie o di prose, prosa o romanzo?
In realtà risulta come non mai qui inutile, proprio di fronte a questo libro, che sembra rompere ogni tradizionale genere e forma, il solito esercizio di superficiale incasellamento.
Meglio piuttosto andare alla sostanza dell'opera, ai suoi propri modi strutturali.
E' una costruzione che procede a frammenti a volte lirici, poche impressioni e sensazioni tratte dalla vita corrente, una immagine balenante, un attimo, uno stato d'animo improvviso e sospeso, a volte più fluidi e distesi, più sereni e distaccati, poi un turbamento, lo svolgimento di una narrazione, un elenco di piccoli fatti, ecco uno spaccato dell'esistenza dell'autore, niente di clamoroso mai, eventi normali, comuni, eppure vissuti con una forte perplessità, sempre insondabili ed assurdi, senza reale fondamento, quindi sul piano delle idee tante brevi riflessioni che tessono un discorso angoscioso, di incertezza, di dubbio, di processione verso una fine inevitabile senza aver nulla spiegato, senza aver nulla risolto.
Si inanellano situazioni ed epoche dell'infanzia, dell'adolescenza, la vita militare, il lavoro, la donna, il matrimonio, incrociandosi spesso con continui flash back, ad ultimo e sopratutto l'attesa della morte.
Già dall'inizio le cose hanno perso il primitivo incanto, tutto il loro fascino segreto, la magia della fanciullezza mostrano piuttosto un loro carico di stupore meccanico, così ecco "...la luna sembra uno straccio smunto e lacero, quando il ritmatico tic -. toc di un orologio a pendolo diventa opprimente, quando mille timbri di voce si riodono armoniosi, dolci, secchi, imperiosi, voci che trascinano, altre che supplicano, quando cari ricordi lasciano svelti svelti il posto ad altrettanti tristi e le zanzare che non danno tregua e i ranocchi pettegoli che gracchiano e i grilli che infastidiscono; quando la vita ci mostra il suo vero volto: inespressivo.  Le persone care ci ronzano attorno come tanti pupazzi, senza cuore, senza spirito, senza sapore di vita e si rincorrono mille fantasticherie troncando poi irrremidiabilmente a metà tutto. Tutto è inutile, inesistente e come in un quadro si incorniciano i più bei sogni ed è una cornice fatta esclusivamente di illusioni, delusioni, amarezze."
C'è una grande qualità di chiarezza, di immagini nette, precise, di pochi aggettivi incisivi, e una grande pulizia di scrittura che rimanda per questo a un qualcosa di classico. Però anche un senso di dimesso, una grande semplicità di fondo con rarissimi toni alti, come di una storia infine banale, per niente eccezionale, che pure è la propria ed unica, senza via di fuga, inevitabile, ineluttabile e per questo tragica.
Allora il sottile tenue disegno tesse una drammatica se pur domestica odissea.
C' è lo sfondo di una educazione cattolica entrata in crisi e in coma che pure continua ad agire come possibile termine di confronti, colorando gli eventi sensuali di peccato. C'è lo estatico smarrimento dei sensi, la scoperta del femminile, piena di meraviglie, di stordimenti.
Come prima aveva imparato l'arte di meravigliarsi "...si meravigliò di una mela, di un dolce, di un piatto, di un bicchiere, si meravigliò del goloso, dell'astemio, dell'ora, del presto, del tardi...", cosi ora gli appaiono colmi di mistero e fascino i seni "...ma seni giovanili appuntiti, rigidi, freschi, invitanti, allegri, tremolanti, variopinti, continuarono a tormentarlo. Vibrò, si spezzò, pianse il desiderio di possederli; li paragonò alle colline, ai tulipani, alle lampadine; disse ancora che erano invitanti, soavi, disse che erano femminili. Si guardò attorno, li cercò,  li seguì sui marciapiedi, sui fogli, sui muri, trasformando il giorno in lente  la notte in fantasia...".
Ma ecco "... i primi approcci con una donna grassa, il resto desideri frenati...".
Sopratutto emerge sempre più fortemente, imponendosi in mezzo a tutti gli altri pensieri, ossessivo, monotono, lancinante, il pensiero della morte che chiude violentemente, improvvisamente il discorso.
Siamo qui al punto di fondo, il più importante: la morte.
Anche qui però nel segno di una continuità stilistica e nella coerenza di un tono, di un atteggiamento mentale, senza retorica, senza fronzoli, con molta immediatezza, semplicità, linearità.
Quello che appare più di tutto caratteristico e raro è proprio questo elemento di confessione elementare, limpida, sincera, che perde persino quei connotati di freddezza e di distacco che aveva d'istinto buona parte dell'opera per divenire accorata, disperata, amara, carica anche di rimorsi. E' in fondo la relazione su di una vita mancata, mai realmente posseduta, così come il maneggio di soldi altrui, non propri, che fa l'autore nella quotidiana pratica del contabile, dell'amministratore.
Ecco il computo delle ore della giornata che pure non quadra "...Sto ripensando disse rivolto alla moglie alle mie giornate che non quadrano...".
Una chiarezza, dicevo, una trasparenza, una semplicità che diventano persino insolite, eccezionali.
Cosi il distacco con cui osserva non diviene mai spietato o crudele, al modo di Proust e investe sopratutto se stesso e la propria vita, i segni non sono quelli di Ramon Gomez dela Serna, la morte non è quella, carica di ricerca metafisica, di Rilke o Beckett. Una morte semplice, comune, evidente, normale, quella del proprio padre, della madre.
Penso piuttosto al primo Paul Nizan, quello di Aden, Arabia, ma in cornice più domestica senza fughe esotiche o forzature o grida o anche, per qualche verso, perché  no? a Leopardi.
Dice Adorno che la paura ossessionante della morte caratterizza la mentalità borghese che ha perso il senso della socialità, della comunanza e affinità con gli altri, in uno sfrenato individualismo. Di qui in particolare  la definizione di decadentismo attribuita agli autori che privilegiano questo tema.
Sartre distingue fra paura della morte, caratteristica dell'uomo in genere, di ogni epoca e società, elemento fondamentale della sua condizione esistenziale, dunque invincibile anche nella prospettiva di un più felice futuro sociale, e paura della vita stessa, propria dell'attuale situazione capitalistica e quindi superabile in una società socialistica realizzata.
Io direi, con Nietzsche che la paura della  morte è sopratutto paura di non vivere, paura di non aver fatto le vere esperienze di non essere esistiti veramente. E' legata all'idea di una vita limitata, mortificata, di essere quasi alla fine senza avere davvero iniziato e compiuto realmente il percorso, di essere abortiti.. Chi ha veramente e pienamente vissuto può anche accettare la morte. Ecco perciò l'esempio della serena morte di tanti uomini saggi carichi di esperienza e conoscenza.
E' questa comunque l'idea che più pare emergere dalla lettura del libro, l'idea di una vita alienata, compressa, schiacciata dall'incombere delle circostanze economiche-sociali conseguenza anche forse, di scelte iniziali sbagliate di un lavoro monotono ed estenuante, che pure i carichi famigliari rendono necessitato,
Un resoconto preciso, netto, senza pudori, senza processi agli altri e l'innalzamento di se a vittima, sincero, straordinariamente onesto, la confessione anche, di un impotenza, la mancanza di forza e di fede per uscire dai ranghi.
E possibile quindi pronunciarsi su questo atteggiamento e comportamento su questo tipo di carattere e di circostanze, dopo essersi calati il più possibile nella situazione concreta e nei suoi impacci, non è possibile lanciare accuse di infingimenti e ipocrisia, nemmeno, direi, di eccessiva e morbosa autocommiserazione.
Bianchessi non cerca nemmeno di giustificarsi, stende soltanto un preciso, chiarissimo, sconsolato rapporto, racconta una storia normale, statistica, comune a moltissimi, persino banale, ma proprio per questo, per la sua generalità, emblematica, universale e davvero tragica.

Pino Franzosi

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